..ma a me piace anche il cinema..

giovedì 8 marzo 2018

RISVEGLIO - di Simona TRIVISANI

Buongiorno amici lettori.
Oggi è la festa della donna ed io non sono il tipo che festeggia queste cose. Vorrei però cogliere l'occasione per postarvi un breve racconto che ho scritto tempo fa per un concorso: credo si adatti molto alla giornata odierna, per non dimenticare che la donna va rispettata sempre e che non è un oggetto che si può possedere.
Buona lettura...




RISVEGLIO

Quando mi resi conto che la realtà si stava sgretolando sotto i miei piedi era ormai troppo tardi. Sapevo dove stessi andando, ero consapevole di ciò che stava per accadere ed ero pronta. Lo ero davvero?
Quel posto non mi faceva più paura, i suoi abitanti erano diventati figure familiari. E se non fossi mai tornata indietro?
Come ogni volta guardai il cielo: era blu, le stelle splendevano in costellazioni che non avevo mai visto sulla terra, avevo cercato di dar loro un nome immaginandone varie e strane forme, una più improbabile dell’altra, un po’ mi faceva sorridere, m’immaginavo come una bambina che guarda le nuvole e vede le forme più svariate.
Camminavo a piedi nudi sull’erba fredda che mi accarezzava la pelle, a volte un brivido mi correva lungo la schiena, così tiravo su una gamba e balzavo in avanti di molti più metri di quanti non ne avrei mai potuti fare sul mio pianeta. Come facevo a sapere che non mi trovavo sulla terra? Voi avete mai visto un uomo con la pelle blu sulla terra? Io no.
La prima volta che uno di quegli esseri aveva incrociato il mio cammino ho avuto un po’ di paura, devo ammetterlo, poi mi sono resa conto che non volevano altro che essere lasciati in pace e così ho fatto le volte successive. Ma avrei potuto fare diversamente?
Il bambino con i grandi occhi arancioni dondolava sempre su una piccola altalena di metallo, il suo cigolio riempiva l’aria. Sentivo uno strano odore, come di ruggine, ma non lo sentivo mai davvero: sapevo che c’era ma il mio naso non lo percepiva davvero, era più una sensazione, come quando sogni e sei consapevole di quel che ti circonda, ma non hai la certezza tangibile di ciò che è.
Continuavo sempre a camminare, seguivo ogni volta lo stesso itinerario, dovevo arrivare da lui ma non c’era fretta, io non ne avevo affatto. Il presente era una cosa relativa, restava immutato ogni volta,  doveva andare sempre allo stesso modo, sembrava di recitare le stesse scene di un film,  avevo provato a cambiare le cose ma non ci ero riuscita: le mie gambe, le mie mani, tutto si muoveva in autonomia, a prescindere dalla mia volontà. Mi sentivo come una marionetta nelle mani sapienti di un burattinaio, la mia mente cercava di ribellarsi ad esso ma non ci riuscivo nonostante tutti i miei sforzi.
Un urlo. Ormai non mi spaventava più.
Quando quella ragazza urlava si alzava in volo uno stormo di uccelli, il suo grido straziante dava i brividi. Nonostante non capissi che parole pronunciava sapevo che urlava per un forte dolore, un dolore lancinante, insopportabile. Avrei voluto aiutarla più e più volte ma arrivavo sempre troppo tardi, era insopportabile per me, non volevo alleviare il suo dolore: volevo cancellarlo.
“Corri!” mi diceva a questo punto una vocina nella mia testa. Così correvo.
Il prato lasciava spazio ad un paesaggio urbano abbandonato. Le case erano avorio come la pavimentazione di listoni di pietra. Qua e là crescevano fili d’erba tra un mattone e l’altro. Le finestre in legno, spesso rotte, si aprivano su case piccole e polverose, guardavo sempre attraverso una di esse: cercavo la ragazza nella fretta della corsa, ma oltre a tavoli e sedie rovesciati sul pavimento ed una tovaglia bianca mossa appena da un vento impercettibile non c’era nulla.
Un rumore improvviso di vetri che si infrangevano mi coglieva sempre di sorpresa, non riuscivo ad abituarmici. Mi voltavo e la città cambiava veste e colori: la vita cominciava a popolare le strade, le case s’illuminavano di luci calde, le stelle lasciavano il posto al sole. I bambini correvano mano nella mano delle loro mamme, un vecchio spingeva un carretto carico di fiori colorati, con le api che gli ronzavano intorno, l’uomo con la pelle blu porgeva un fiore ad una donna che indossava un abito dello stesso arancione dei suoi occhi.
“Perché hai smesso di correre?” diceva la vocina nella mia testa “Corri!”. Così correvo. Correvo ancora e ancora.
La gente intorno neanche mi vedeva, voleva essere lasciata in pace.
“Tra poco la vedrai” dicevo a me stessa “sei pronta?” e la mia corsa si fermava, immobile all’imboccatura di una stradina vuota. Sembrava di essere in un paese antico: i panni stesi tra i due palazzi che delimitavano la via, l’odore di ammorbidente che aleggiava nell’aria, suppongo, misto ad un odore di ruggine molto forte che a sua volta era misto ad odore di morte, la mia mente li rappresentava così almeno.
Eccola, lì nel vicolo deserto, riversa in una pozza di sangue. Aveva urlato lei, lo sapevo senza conoscerne realmente il motivo. Il suo viso non ero mai riuscita a vederlo, il sangue sgorgava da una ferita alla testa, i suoi capelli erano lunghi e scuri, sporchi di sangue, ma dal colore delle sue punte immaginavo dovessero essere biondi più o meno come i miei. Mi avvicinavo al suo corpo inerme, le giravo intorno ma il suo viso sembrava girare a seconda di dove mi posizionassi  rendendomi impossibile vederlo. Provai a scostarle i capelli, ma il risultato non cambiava, la ragazza non aveva un nome, non aveva un viso. La sua pelle era chiara, il suo abito a fiori era così sottile e leggero che sapeva d’estate, le sue scarpe erano rosse di vernice, le gambe incrociate come se, nel ricevere il colpo, il suo corpo avesse ruotato su sé stesso. Il suo sangue brillava sull’asfalto.
“Cosa ti hanno fatto?” dicevo sentendo l’eco della mia voce, mi veniva da piangere ma trattenni le lacrime, cos’aveva potuto fare di male da meritare una fine del genere? Era morta: non poteva che essere così con una ferita del genere alla testa.
“Scappa!” diceva la voce nella mia testa mentre ero china sul corpo esile della ragazza. Così scappavo senza sapere dove andare.
L’angoscia cresceva dentro di me un passo dopo l’altro.
Il vicolo terminava in una grande piazza circondata da un maestoso colonnato ma non mi ero mai soffermata ad ammirarlo a dovere, correvo troppo velocemente senza voltarmi indietro. Le persone che mi circondavano continuavano a non notarmi, come fossi invisibile. Com’è possibile non accorgersi di una persona che corre così freneticamente?
La città prendeva forme a me sempre più familiari, correvo così velocemente da avere la sensazione di volare ma non notavo i cambiamenti finché non giungevo nel cortile del mio palazzo.  Il sole stava calando e il rosa pallido dei muri cambiava colore con i colori del tramonto.
Ero braccata, lo sentivo arrivare. Avevo paura, come sempre. Speravo di ricominciare tutto da capo il prima possibile per non dover vivere a lungo quel momento di paura.
Le stelle si facevano strada prepotenti nel cielo, come avessero fretta, come se qualcuno stesse mandando avanti un video col tasto x2.
Non potevo più muovermi, il gelo aveva bloccato ogni fibra del mio essere, mi sentivo morire, svuotata di tutto l’ossigeno.
Così lui arrivava alle mie spalle, nel silenzio di un’ombra, con in mano un bastone che sembrava splendere alla luce della luna, una luna maledettamente bella che riluceva in un cielo ormai immobile.
Il suo viso era nascosto dal buio ma sentivo i suoi occhi addosso, sentivo il suo fiato pesante nell’aria fresca di una sera estiva. Mi guardavo intorno in cerca di un aiuto, di una figura amica che potesse aiutarmi. Non c’eravamo che io e lui. Conoscevo quell’uomo, riconoscevo il suo profumo, la fragranza che si mischiava con l’odore della sua pelle creando un odore unico come succede per tutti, ma era nella mia testa, non lo sentivo davvero.
La paura cresceva quando pronunciava il mio nome, mentre mi diceva “Giada, tu sei mia e di nessun altro”.  Non potevo fermarlo, sapevo che non avrei potuto contrastare quello che stava per accadere. Sapevo che stava per arrivare il colpo e non sarei mai riuscita a schivarlo.
“Urla, chiedi aiuto” diceva la voce nella mia testa. Così urlavo.
Urlavo ogni volta ma non mi sentiva nessuno, almeno credo, il dolore arrivava inaspettato ogni volta nonostante lo aspettassi puntuale. Poi tutto ricominciava, avevo perso il conto di quante volte avessi già vissuto quel sogno se di sogno si trattava.
No, un attimo, non ricominciava. Perché non ricominciava?
Qualcosa era cambiato, qualcosa mi aveva riportata indietro. Col senno di poi credo si sia trattato di voglia di libertà: la mia mente non voleva più essere prigioniera della paura, prigioniera di quell’uomo, di quel posto.
Sentivo un fastidio alla testa, l’aria che inspiravo aveva consistenza reale. Il dolore era reale, la vita era reale.
Il circolo temporale si era spezzato? Non vedevo nulla, sentivo un continuo bip che sembrava scandire il tempo. Non vedevo nulla perché avevo gli occhi ancora chiusi.
“Apri gli occhi!” diceva la voce nella mia testa, il bip si faceva più frequente, suonava al ritmo del mio cuore. Così aprii gli occhi.
Fu come se quel piccolo gesto avesse innescato una serie di reazioni nel mio corpo che tornò a vivere in un istante ma prendendosi tutto il tempo necessario per capire come doveva muovere cosa.
Quando i medici notarono il cambiamento non smisero di dire “è un miracolo!”. Il miracolo l’ho attuato da sola, con la forza del mio spirito, la voglia di vivere.
Quando mi svegliai e riuscii a formulare frasi di senso compiuto, la polizia cominciò a farmi domande. All’inizio non ricordavo altro che quel sogno, un sogno che si era ripetuto di continuo per dieci giorni di coma profondo, come se mi fossi trovata in uno di quei film assurdi in cui i protagonisti rivivono la stessa giornata in un continuo loop temporale.
Le immagini irreali del sogno lasciarono presto il posto a quelle tragiche di quella notte maledettamente reale. Il fiato corto, la corsa lontana da lui che mi parlava con una voce non sua, troppo carica di odio, sembrava un pazzo; la poca gente che incontravo per strada che mi guardava con indifferenza, il rumore della bottiglia che andava in mille pezzi colpita mentre correvo, il senso di gelo che mi attraversava le vene. Tutto si materializzò nella mia testa spezzandomi ancora una volta. Il ricordo di quel che era stato mi aveva uccisa e continuava a farlo ad ogni frammento, ad ogni dettaglio che si aggiungeva rendendolo reale e tangibile ogni istante di più.
Non dovevo essere viva, dovevo morire quella notte in quel vicolo, col mio bel vestito a fiori e le mie scarpe rosse di vernice. Mi ero fatta bella per lui, diceva di amarmi, ma lui non mi voleva così bella, non so come mi volesse.. diceva di amarmi..
Non so chi mi abbia protetta da lassù quella notte, ma se ero ancora lì doveva esserci un motivo ben preciso, lui non avrebbe più dovuto far del male a nessuno.
Lo presero con ancora il bastone in mano sporco del mio sangue e quando gli hanno chiesto il perché di quel folle gesto lui ha detto “Era troppo bella, avevo paura che mi lasciasse, lei era mia”. Non ci volevo credere, fino a quel giorno era sempre stato un uomo dolce e gentile, non gli avevo mai dato modo di dubitare di me e della mia fedeltà e devozione nei suoi confronti.
Eravamo innamorati, me lo ripeteva ogni giorno, me lo dimostrava in ogni modo possibile, io vivevo per lui e per il nostro amore. Ripensandoci mi sono spesso chiesta se non avessi mai colto qualche segno della sua ossessione nei miei confronti, ma oltre ad una forte gelosia insensata non aveva mai dimostrato nessuno squilibrio, nulla che mi facesse pensare che si trattasse di un uomo violento. I suoi amici però lo dicevano spesso: “Carlo ed i suoi scatti di ira..”. Non li avevo mai visti fino a quel giorno.. diceva di amarmi..
Come può un uomo innamorato fare una cosa del genere?

Il suo profumo mi è rimasto nelle narici. Diceva di amarmi.. ma l’amore non fa male..

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