Buongiorno amici lettori.
Oggi è la festa della donna ed io non sono il tipo che festeggia queste cose. Vorrei però cogliere l'occasione per postarvi un breve racconto che ho scritto tempo fa per un concorso: credo si adatti molto alla giornata odierna, per non dimenticare che la donna va rispettata sempre e che non è un oggetto che si può possedere.
Buona lettura...
RISVEGLIO
Quando mi resi conto che la realtà si stava
sgretolando sotto i miei piedi era ormai troppo tardi. Sapevo dove stessi
andando, ero consapevole di ciò che stava per accadere ed ero pronta. Lo ero
davvero?
Quel posto non mi faceva più paura, i suoi
abitanti erano diventati figure familiari. E se non fossi mai tornata indietro?
Come ogni volta guardai il cielo: era blu, le
stelle splendevano in costellazioni che non avevo mai visto sulla terra, avevo
cercato di dar loro un nome immaginandone varie e strane forme, una più
improbabile dell’altra, un po’ mi faceva sorridere, m’immaginavo come una
bambina che guarda le nuvole e vede le forme più svariate.
Camminavo a piedi nudi sull’erba fredda che mi
accarezzava la pelle, a volte un brivido mi correva lungo la schiena, così
tiravo su una gamba e balzavo in avanti di molti più metri di quanti non ne
avrei mai potuti fare sul mio pianeta. Come facevo a sapere che non mi trovavo
sulla terra? Voi avete mai visto un uomo con la pelle blu sulla terra? Io no.
La prima volta che uno di quegli esseri aveva
incrociato il mio cammino ho avuto un po’ di paura, devo ammetterlo, poi mi
sono resa conto che non volevano altro che essere lasciati in pace e così ho
fatto le volte successive. Ma avrei potuto fare diversamente?
Il bambino con i grandi occhi arancioni dondolava
sempre su una piccola altalena di metallo, il suo cigolio riempiva l’aria.
Sentivo uno strano odore, come di ruggine, ma non lo sentivo mai davvero:
sapevo che c’era ma il mio naso non lo percepiva davvero, era più una
sensazione, come quando sogni e sei consapevole di quel che ti circonda, ma non
hai la certezza tangibile di ciò che è.
Continuavo sempre a camminare, seguivo ogni volta
lo stesso itinerario, dovevo arrivare da lui ma non c’era fretta, io non ne
avevo affatto. Il presente era una cosa relativa, restava immutato ogni volta, doveva andare sempre allo stesso modo,
sembrava di recitare le stesse scene di un film, avevo provato a cambiare le cose ma non ci
ero riuscita: le mie gambe, le mie mani, tutto si muoveva in autonomia, a
prescindere dalla mia volontà. Mi sentivo come una marionetta nelle mani
sapienti di un burattinaio, la mia mente cercava di ribellarsi ad esso ma non
ci riuscivo nonostante tutti i miei sforzi.
Un urlo. Ormai non mi spaventava più.
Quando quella ragazza urlava si alzava in volo uno
stormo di uccelli, il suo grido straziante dava i brividi. Nonostante non
capissi che parole pronunciava sapevo che urlava per un forte dolore, un dolore
lancinante, insopportabile. Avrei voluto aiutarla più e più volte ma arrivavo
sempre troppo tardi, era insopportabile per me, non volevo alleviare il suo
dolore: volevo cancellarlo.
“Corri!” mi diceva a questo punto una vocina nella
mia testa. Così correvo.
Il prato lasciava spazio ad un paesaggio urbano
abbandonato. Le case erano avorio come la pavimentazione di listoni di pietra.
Qua e là crescevano fili d’erba tra un mattone e l’altro. Le finestre in legno,
spesso rotte, si aprivano su case piccole e polverose, guardavo sempre attraverso
una di esse: cercavo la ragazza nella fretta della corsa, ma oltre a tavoli e
sedie rovesciati sul pavimento ed una tovaglia bianca mossa appena da un vento
impercettibile non c’era nulla.
Un rumore improvviso di vetri che si infrangevano
mi coglieva sempre di sorpresa, non riuscivo ad abituarmici. Mi voltavo e la
città cambiava veste e colori: la vita cominciava a popolare le strade, le case
s’illuminavano di luci calde, le stelle lasciavano il posto al sole. I bambini
correvano mano nella mano delle loro mamme, un vecchio spingeva un carretto
carico di fiori colorati, con le api che gli ronzavano intorno, l’uomo con la
pelle blu porgeva un fiore ad una donna che indossava un abito dello stesso
arancione dei suoi occhi.
“Perché hai smesso di correre?” diceva la vocina
nella mia testa “Corri!”. Così correvo. Correvo ancora e ancora.
La gente intorno neanche mi vedeva, voleva essere
lasciata in pace.
“Tra poco la vedrai” dicevo a me stessa “sei
pronta?” e la mia corsa si fermava, immobile all’imboccatura di una stradina
vuota. Sembrava di essere in un paese antico: i panni stesi tra i due palazzi
che delimitavano la via, l’odore di ammorbidente che aleggiava nell’aria,
suppongo, misto ad un odore di ruggine molto forte che a sua volta era misto ad
odore di morte, la mia mente li rappresentava così almeno.
Eccola, lì nel vicolo deserto, riversa in una
pozza di sangue. Aveva urlato lei, lo sapevo senza conoscerne realmente il
motivo. Il suo viso non ero mai riuscita a vederlo, il sangue sgorgava da una
ferita alla testa, i suoi capelli erano lunghi e scuri, sporchi di sangue, ma
dal colore delle sue punte immaginavo dovessero essere biondi più o meno come i
miei. Mi avvicinavo al suo corpo inerme, le giravo intorno ma il suo viso
sembrava girare a seconda di dove mi posizionassi rendendomi impossibile vederlo. Provai a
scostarle i capelli, ma il risultato non cambiava, la ragazza non aveva un
nome, non aveva un viso. La sua pelle era chiara, il suo abito a fiori era così
sottile e leggero che sapeva d’estate, le sue scarpe erano rosse di vernice, le
gambe incrociate come se, nel ricevere il colpo, il suo corpo avesse ruotato su
sé stesso. Il suo sangue brillava sull’asfalto.
“Cosa ti hanno fatto?” dicevo sentendo l’eco della
mia voce, mi veniva da piangere ma trattenni le lacrime, cos’aveva potuto fare
di male da meritare una fine del genere? Era morta: non poteva che essere così
con una ferita del genere alla testa.
“Scappa!” diceva la voce nella mia testa mentre
ero china sul corpo esile della ragazza. Così scappavo senza sapere dove
andare.
L’angoscia cresceva dentro di me un passo dopo
l’altro.
Il vicolo terminava in una grande piazza
circondata da un maestoso colonnato ma non mi ero mai soffermata ad ammirarlo a
dovere, correvo troppo velocemente senza voltarmi indietro. Le persone che mi
circondavano continuavano a non notarmi, come fossi invisibile. Com’è possibile
non accorgersi di una persona che corre così freneticamente?
La città prendeva forme a me sempre più familiari,
correvo così velocemente da avere la sensazione di volare ma non notavo i
cambiamenti finché non giungevo nel cortile del mio palazzo. Il sole stava calando e il rosa pallido dei
muri cambiava colore con i colori del tramonto.
Ero braccata, lo sentivo arrivare. Avevo paura,
come sempre. Speravo di ricominciare tutto da capo il prima possibile per non
dover vivere a lungo quel momento di paura.
Le stelle si facevano strada prepotenti nel cielo,
come avessero fretta, come se qualcuno stesse mandando avanti un video col
tasto x2.
Non potevo più muovermi, il gelo aveva bloccato
ogni fibra del mio essere, mi sentivo morire, svuotata di tutto l’ossigeno.
Così lui arrivava alle mie spalle, nel silenzio di
un’ombra, con in mano un bastone che sembrava splendere alla luce della luna,
una luna maledettamente bella che riluceva in un cielo ormai immobile.
Il suo viso era nascosto dal buio ma sentivo i
suoi occhi addosso, sentivo il suo fiato pesante nell’aria fresca di una sera
estiva. Mi guardavo intorno in cerca di un aiuto, di una figura amica che potesse
aiutarmi. Non c’eravamo che io e lui. Conoscevo quell’uomo, riconoscevo il suo
profumo, la fragranza che si mischiava con l’odore della sua pelle creando un
odore unico come succede per tutti, ma era nella mia testa, non lo sentivo
davvero.
La paura cresceva quando pronunciava il mio nome, mentre
mi diceva “Giada, tu sei mia e di nessun altro”. Non potevo fermarlo, sapevo che non avrei
potuto contrastare quello che stava per accadere. Sapevo che stava per arrivare
il colpo e non sarei mai riuscita a schivarlo.
“Urla, chiedi aiuto” diceva la voce nella mia
testa. Così urlavo.
Urlavo ogni volta ma non mi sentiva nessuno,
almeno credo, il dolore arrivava inaspettato ogni volta nonostante lo
aspettassi puntuale. Poi tutto ricominciava, avevo perso il conto di quante
volte avessi già vissuto quel sogno se di sogno si trattava.
No, un attimo, non ricominciava. Perché non
ricominciava?
Qualcosa era cambiato, qualcosa mi aveva riportata
indietro. Col senno di poi credo si sia trattato di voglia di libertà: la mia
mente non voleva più essere prigioniera della paura, prigioniera di quell’uomo,
di quel posto.
Sentivo un fastidio alla testa, l’aria che
inspiravo aveva consistenza reale. Il dolore era reale, la vita era reale.
Il circolo temporale si era spezzato? Non vedevo
nulla, sentivo un continuo bip che sembrava scandire il tempo. Non vedevo nulla
perché avevo gli occhi ancora chiusi.
“Apri gli occhi!” diceva la voce nella mia testa,
il bip si faceva più frequente, suonava al ritmo del mio cuore. Così aprii gli
occhi.
Fu come se quel piccolo gesto avesse innescato una
serie di reazioni nel mio corpo che tornò a vivere in un istante ma prendendosi
tutto il tempo necessario per capire come doveva muovere cosa.
Quando i medici notarono il cambiamento non smisero di dire “è un miracolo!”. Il miracolo l’ho attuato da
sola, con la forza del mio spirito, la voglia di vivere.
Quando mi svegliai e riuscii a formulare frasi di
senso compiuto, la polizia cominciò a farmi domande. All’inizio non ricordavo
altro che quel sogno, un sogno che si era ripetuto di continuo per dieci giorni
di coma profondo, come se mi fossi trovata in uno di quei film assurdi in cui i
protagonisti rivivono la stessa giornata in un continuo loop temporale.
Le immagini irreali del sogno lasciarono presto il
posto a quelle tragiche di quella notte maledettamente reale. Il fiato corto,
la corsa lontana da lui che mi parlava con una voce non sua, troppo carica di
odio, sembrava un pazzo; la poca gente che incontravo per strada che mi
guardava con indifferenza, il rumore della bottiglia che andava in mille pezzi
colpita mentre correvo, il senso di gelo che mi attraversava le vene. Tutto si
materializzò nella mia testa spezzandomi ancora una volta. Il ricordo di quel
che era stato mi aveva uccisa e continuava a farlo ad ogni frammento, ad ogni
dettaglio che si aggiungeva rendendolo reale e tangibile ogni istante di più.
Non dovevo essere viva, dovevo morire quella notte
in quel vicolo, col mio bel vestito a fiori e le mie scarpe rosse di vernice.
Mi ero fatta bella per lui, diceva di amarmi, ma lui non mi voleva così bella,
non so come mi volesse.. diceva di amarmi..
Non so chi mi abbia protetta da lassù quella
notte, ma se ero ancora lì doveva esserci un motivo ben preciso, lui non
avrebbe più dovuto far del male a nessuno.
Lo presero con ancora il bastone in mano sporco
del mio sangue e quando gli hanno chiesto il perché di quel folle gesto lui ha
detto “Era troppo bella, avevo paura che mi lasciasse, lei era mia”. Non ci
volevo credere, fino a quel giorno era sempre stato un uomo dolce e gentile,
non gli avevo mai dato modo di dubitare di me e della mia fedeltà e devozione nei
suoi confronti.
Eravamo innamorati, me lo ripeteva ogni giorno, me
lo dimostrava in ogni modo possibile, io vivevo per lui e per il nostro amore.
Ripensandoci mi sono spesso chiesta se non avessi mai colto qualche segno della
sua ossessione nei miei confronti, ma oltre ad una forte gelosia insensata non
aveva mai dimostrato nessuno squilibrio, nulla che mi facesse pensare che si
trattasse di un uomo violento. I suoi amici però lo dicevano spesso: “Carlo ed
i suoi scatti di ira..”. Non li avevo mai visti fino a quel giorno.. diceva di
amarmi..
Come può un uomo innamorato fare una cosa del
genere?
Il suo profumo mi è rimasto nelle narici. Diceva
di amarmi.. ma l’amore non fa male..