Si tratta di un romanzo fantasy (ma guarda un po') che esprime come sempre di concetti morali molto profondi.
La storia si sviluppa tra Roma ed un mondo fantastico molto simile al nostro.
Sara, Luca, Carla e Stefano, quattro perfetti sconosciuti, grazie ad un concorso di pittura "l'immagine del mio sogno" appunto, si trovano a intrecciare le loro vite in un mondo lontano, guidati attraverso vari paesaggi fantastici e condotti su un'isola magica scopriranno il loro destino.
La trama vi sta stuzzicando la fantasia? Lo spero proprio perché di seguito troverete il primo capitolo.
Spero vi piaccia e spero vogliate comprarlo.
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SARA
Ogni mattina, quando mi alzavo, mi guardavo allo specchio e
provavo sempre più compassione per la ragazza riflessa.
Sono sempre stata un po’ emarginata perché, nonostante il
mio bell’aspetto, le persone cercavano di evitarmi perché ero un po’
stravagante, poi io ero quella il cui padre era scappato quando era piccola,
quella cresciuta con una mamma che le faceva anche da papà. Già da bambina mi
sono sentita fuori posto, o mi ci hanno fatto sentire: i bambini non hanno
filtri e dicono sempre quello che pensano, inconsapevoli che a volte si tratta
di cattiverie.
Quel giorno nulla era diverso. Nello specchio, quella
ragazza con i capelli castani arruffati, aveva lo sguardo triste e stanco di
sempre. Dormivo dalle otto alle nove ore a notte, tranne il fine settimana, ma
le occhiaie erano sempre lì. Qualche minuto per snodare quei nidi marroni dalla
mia testa, che continuavano a formarsi sebbene avessi tagliato i capelli da
poco, arrivavano sotto il mento ma continuavano ad annodarsi, e passai al
correttore sotto gli occhi.
Come ormai succedeva sovente da qualche anno, anche quella
notte sognai quel castello grigio, a struttura piramidale, con la grande torre
al centro. Il cielo era sempre grigio e segnato dai fulmini.
Mentre mettevo la matita agli occhi, mi fermai a pensare a
quel posto, mi sembrava così familiare. Chissà in quale film lo avevo visto da
bambina e perché mi era rimasto così impresso nella mente.
Andai in cucina a fare colazione e trovai mia madre con la
tazzina del caffè in mano che guardava fuori dalla finestra. Era spesso immersa
nei suoi pensieri ed entrava in un mondo tutto suo. Da qualcuno dovevo pur aver
preso il mio essere stravagante.
“Buongiorno” le dissi e distolse lo sguardo da quello che
vedeva fuori. Mi sorrise dolcemente, posò la tazzina sul piano della cucina e
venne a baciarmi in fronte, come sempre.
“Buongiorno, dormito bene? Vai a scuola stamattina?”
continuava a chiamare l’Accademia delle belle Arti ancora scuola. Per lei ero
ancora la bambina che metteva lo zaino in spalla e con il grembiulino bianco
andava alle elementari. Ormai avevo più di vent’anni ma per lei non cambiava
niente: mi aggiustò la maglia, anche se non c’era nulla fuori posto in un gesto
molto dolce e materno, senza guardarmi in faccia ma sfoderando un bellissimo
sorriso.
“Stamattina il professore vuol vederci tutti per proporci un
concorso grafico” le dissi quando alzò
lo sguardo sul mio viso “devo essere in accademia per le dieci”.
“Bene” mi disse, poi tornò al lavello per lavare quel che
aveva sporcato.
Feci colazione con calma. Quando mia madre mi salutò per
andare a lavorare ero di nuovo in bagno a lavare i denti.
Gli artisti che frequentavano l’accademia sarebbero dovuti
essere omogenei, fare gruppo, ma non era così. Non mi ero mai trovata in un
ambiente così competitivo e a volte così ostile. Ognuno teneva per se quello
che imparava, non c’era condivisione. Stavo sempre per conto mio. I miei
compagni di corso ce l’avevano con me perché il professore di grafica adorava i
miei lavori e i loro quasi non li guardava.
Andai alla fermata della metro e quando salii in treno stavo
già ascoltando la mia musica preferita. Ero estraniata da tutto quello che mi
circondava ma osservavo distrattamente tutto: il bimbo che faceva i capricci
perché non voleva stare fermo sul sedile, la coppietta che si sbaciucchiava
nell’angolo della carrozza, i turisti che studiavano una cartina.
Arrivata alla mia
fermata, risalii in superficie e fui baciata dal sole di metà maggio che
splendeva in cielo.
Camminai per il centro in direzione dell’ accademia. La
gente popolava la via pedonale, tanti con la macchina fotografica, stranieri di
ogni genere, ma anche gli stessi romani.
Arrivai dopo poco e riposi le cuffie nella borsa. Entrai
nell’aula magna, dove il professore ci attendeva dritto a braccia conserte,
vestito come ormai non vestiva più nessuno. Era stravagante con il suo gilet di
cotone arancione sbiadito sulla camicia a mezza manica bianca a righe celesti.
I suoi capelli grigi erano sempre arruffati e i mocassini verdi ai piedi
creavano quasi l’arcobaleno abbinati al rosso brillante dei suoi pantaloni a
pinocchietto.
I posti davanti erano
vuoti come immaginavo. Mi sedetti proprio lì perché sapevo che non mi si
sarebbe avvicinato nessuno.
Quando si fecero le dieci, con la sua solita precisione, il
docente prese il microfono in mano e lo accese. Per provarlo picchiettò con un
dito sulla griglia di metallo attirando l’attenzione di tutti.
“Buongiorno signori” disse guardando prima me, poi le retrovie
“vi ho convocati qui oggi per questo” tirò fuori un piccolo poster colorato e
lo mostrò a tutti “si tratta di un concorso grafico per quelli là dietro che
non riescono a leggere. Il titolo del concorso è L’IMMAGINE DEL MIO SOGNO. È richiesto
ad ogni artista di creare un’opera ispirata ai propri sogni, non è specificato
se riferito a sogni di vita o a sogni veri e propri, quindi date sfogo alla
fantasia. Si possono creare opere con qualunque tecnica, purché siano delle
dimensioni cento per settanta. Datevi da fare perché la scadenza è tra due
settimane. Buon lavoro” conciso come sempre spense il microfono e lo ripose sul
tavolo dietro di lui.
Mi guardò per qualche
istante con i suoi profondi occhi verdi, come se mi stesse incoraggiando a fare
un buon lavoro, poi uscì dall’aula dando il via al brusio dei ragazzi dietro di
me che discutevano di varie tecniche segrete che avevano sperimentato,
ovviamente non svelando troppo.
Mi alzai e uscii dopo pochi istanti. Non se ne accorse
nessuno.
Poiché ero in centro, decisi di fare quattro passi con la
musica nelle orecchie. Passeggiai guardando distrattamente le vetrine dei
negozi, senza vederci nulla in realtà, guardando le varie opere d’arte che mi
circondavano.
Mi rilassava vedere le statue e gli obelischi, i palazzi e
le fontane. Mi fermai in piazza di Spagna e Fontana di Trevi per un po’.
Guardavo i turisti che si facevano fotografare, tutti nelle stesse pose. Mi
chiesero anche di far loro delle foto. Mangiai un pezzo di pizza camminando
perché se fossi tornata a casa digiuna, mia madre se ne sarebbe accorta e mi
avrebbe fatto una bella lavata di testa: per lei ero sempre troppo magra.
Dopo essere rimasta una mezz’ora sugli scalini dell’altare
della patria, ormai in pieno pomeriggio, decisi che era ora di tornare a casa. Passai
dal ferramenta dietro casa per comprare la tela.
Sapevo cosa avrei dipinto, dovevo solo decidere come
impostare la tela. La misi in verticale sul cavalletto che avevo in camera,
l’ispirazione venne in un attimo, segnai le proporzioni con la matita.
La bozza venne fuori in pochi minuti, sembrava già scritta
sulla tela: le linee erano precise e ben definite.
Avrei dipinto ad olio, era la tecnica più adatta per
dipingere quel castello e quel cielo soprattutto. Avrei messo in primo piano
anche la spada, quella spada dall’elsa dorata con le parole incomprensibili
incise sulla base della lama.
Mi misi distante dalla tela per vedere il risultato. Era
soddisfacente. Avrei cominciato l’indomani con la pittura. Controllai nella
cassetta “dell’artista” come amava chiamarla mia madre, per assicurarmi che
avessi tutti i colori necessari. Non mancava niente a parte un pennello, non ne
avevo uno grande abbastanza per dipingere il cielo coperto di nuvole.
La mia camera era grande e un po’ disordinata, ma era il mio
rifugio. Mi sedetti sul letto e guardai
la tela disegnata. Mia madre bussò alla porta.
“Entra pure” dissi.
Aprì e mi sorrise come ogni volta che mi vedeva: io ero
quanto di più bello la vita le avesse donato mi diceva sempre.
“Ciao! Allora di cosa si trattava? Sei andata a scuola?”
disse impaziente.
Feci un cenno con la testa per indicare la tela sul
cavalletto.
Si portò le mani alla bocca “Ooh! È bellissimo!” esclamò.
“Sei di parte mamma! Per te sarebbe bello anche se fosse
informe! Dobbiamo rappresentare i nostri sogni” spiegai.
“Sei bravissima!” mi disse, ma l’interruppi perché guardai
l’orologio. Avevo perso la cognizione del tempo ed era tardissimo. Lavoravo in
un bar notturno il fine settimana, ed era venerdì.
Mi tirai su e indossai i pantaloni neri della divisa del
locale con la camicia bianca e il gilet nero abbinato. Infilai le scarpe e
presi la borsa. Mia madre mi salutò sulla porta della mia camera.
“Buon lavoro” disse salutandomi con la mano.
“Ciao mamma!” e uscii.
Il bar era vicino e ci andai a piedi.
Quando entrai, Vito che era il padrone, un omone calvo e
pieno di tatuaggi tribali, ma sempre vestito in modo elegante, mi salutò
calorosamente. Era strano, ma l’unico posto in cui mi sentivo discretamente a
mio agio e accettata era quello. Era un bar di un certo livello ed era
frequentato da gente altolocata. Spesso avevo servito da bere anche a
celebrità.
Dietro il bancone avevo il mio mondo. I muri del locale
erano piuttosto scuri e pieni di specchi dalle cornici dorate, a varie altezze,
che creavano un gioco di luci spettacolare. La sala era piena di tavoli bassi
rotondi e di poltrone basse di pelle nera che gli giravano intorno. Su ogni
tavolino grigio argento c’era una lampada, tutte diverse tra loro ma che, con
le luci di diverso colore, per lo più freddo, creavano una certa armonia.
Al centro vi era un grande spazio aperto, dove gli ospiti
ballavano quando ne avevano voglia. Il pavimento era lucido e nero. In fondo
alla sala c’era un piccolo balconcino che apriva il muro a tre metri di
altezza, in cui si posizionava Samuele, il DJ. La musica era quasi sempre molto
soft o comunque ad un volume accettabile, Vito non voleva che il dialogo tra le
persone fosse totalmente infastidito dalla musica, doveva essere più di un
sottofondo ma meno di una discoteca.
Il bancone era viola scuro e argento come le pareti, alle
quali erano attaccate ad arte delle bellissime tende argento e nero.
Dietro la mia postazione, le bottiglie di alcolici erano su
mensole di vetro montate su grandi specchi rotondi senza cornice.
Era un po’ eccentrico, ma mi piaceva molto.
Alle otto l’ingresso si aprì e cominciai a versare alcol, il
locale si riempì in una mezz’ora e fuori si creò una lunga fila di gente che
attendeva di entrare.
I camerieri cominciarono a fare i loro giri ai tavolini, ma
molti venivano direttamente al bancone a prendere da bere per poi accomodarsi
sulle poltrone.
Molti ragazzi che ormai erano clienti abituali mi chiamavano
persino per nome e non mi dispiaceva.
Nella sala regnava la calma per lo più. Qualcuno si metteva
a ballare, ma lo faceva senza scatenarsi troppo. La musica non copriva comunque
il brusio che arrivava fino alla mia postazione.
Era piacevole.
La notte passò in fretta tra un bicchiere e un altro e
quando furono le quattro del mattino, il locale chiuse i battenti.
Gli ultimi clienti andarono via proprio a quell’ora, era una
coppia che evidentemente si era appena formata, a giudicare dal loro modo di
fare.
Finii di lavare il bancone, salutai Vito e tutto lo staff e
mi avviai verso l’uscita.
“Vuoi un passaggio?” mi disse Roberto, uno dei camerieri,
era alto e scuro di carnagione. I capelli neri e gli occhi marroni. Dalla forma
che si intravedeva sotto la camicia, doveva essere muscoloso ma non lo avevo
mai visto a petto nudo.
“Ti ringrazio, ma abito qui vicino, lo sai” gli risposi
educata.
“Allora ti accompagno a piedi e poi torno a prendere l’auto”
faceva ogni volta così. Era un ragazzo premuroso. Diceva sempre che le strade
deserte di Roma erano pericolose per uno scricciolo come me.
Magra ero magra, ma sapevo difendermi. Gli sorrisi e lo
lasciai fare, come tutte le volte.
Chiacchierammo del più e del mano durante il breve tragitto
che portava a casa mia. La sua compagnia mi piaceva molto.
Arrivammo al portone del mio palazzo e mi baciò la guancia.
“Buon riposo Michelangelo!” mi disse e si allontanò. Aveva
visto alcuni miei quadri e li reputava bellissimi. Secondo lui ero la
reincarnazione di Michelangelo.
Salii per le scale con il sorriso stampato in faccia.
Roberto mi faceva sempre sorridere.
Entrai in casa facendo attenzione a non fare troppo rumore:
a mamma piaceva dormire fino a tardi il sabato e aveva il sonno molto leggero.
Andai in bagno a sciacquarmi un po’, indossai una maglia
comoda e leggera e mi lanciai letteralmente sul letto. Diedi un ultimo sguardo
alla tela sul cavalletto e caddi in un sonno profondo.
Il posto non cambiò di una virgola. Quel castello in
lontananza sotto il cielo nero metteva un po’ d’angoscia. I fulmini non
smettevano di rigare il cielo in modo continuo, quasi ritmico.
L’erba sotto i miei piedi era bagnata. Sentivo l’aria
pesante opprimermi il petto. La spada dall’elsa dorata era piantata nel terreno
accanto a me.
Quel posto era così familiare che quasi riconoscevo ogni
filo d’erba, ogni pietra sotto i calzari.
Il sogno era molto realistico, ma sembrava di viverlo in
terza persona. Ero spettatrice di me stessa nel mio stesso corpo.
Impugnai la spada e la tirai su. Poi accadde qualcosa che
fino ad allora, per tanti anni, non era mai accaduta: vidi un ragazzo alla mia
destra. Era alto forse venti centimetri più di me, che ero un metro e settanta.
I suoi ricci corti e neri erano mossi dal vento freddo che soffiava su quella
collina. Gli occhi verdi puntati sul castello. In mano teneva una spada
identica alla mia. Nel momento in cui si girò verso di me e mi guardò mi
svegliai.
Restai col viso nel cuscino per qualche secondo, poi la
necessità di respirare mi fece tirare su il viso.
Restai qualche istante a pensare all’evolversi della storia.
Sembrava di rivedere sempre le scene dello stesso film.
Era primo pomeriggio. Mi alzai e mi misi a dipingere.
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